La grandezza di alcuni, visionari e pensatori consiste nella capacità di cogliere con un certo anticipo le trasformazioni che avverranno in un dato contesto o in una particolare epoca. Altra caratteristica che sancisce l’eccezionalità di taluni pensieri è invece rivolta al presente, a quel genere di autori che con spiccata acutezza riescono a cogliere e definire l’attualità secondo punti di vista inediti, e che catturano prospettive inaspettate con una chiarezza disarmante. Byung-Chul Han

Visionari anticipatori e visionari del presente

Tra le menti anticipatrici appartenenti al primo gruppo, il nome che ha saputo meglio comprendere il destino della contemporaneità “europea” – descrivendo l’inesorabile e compiuta caduta dei valori dominanti – è stato Nietzsche. Egli però era anche consapevole del fatto che il mondo del suo tempo non fosse ancora pronto alla portata dell’evento, e nel celebre aforisma 125 de “La Gaia Scienza” esprime questa sua consapevolezza affermando “vengo troppo presto […] non è ancora il mio tempo. Questo enorme avvenimento è ancora per strada e sta facendo il suo cammino. Non è ancora arrivato fino alle orecchie degli uomini”.

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Friedrich Nietzsche (Via Wikimedia Commons, PD-Old-70)

Altri anticipatori formidabili furono Huxley, che nel suo distopico “Mondo Nuovo” descrive un’umanità pianificata e controllata, iperattiva ed edonica (non molto diversa da quella odierna insomma), e Sloterdijk, che a fine anni ’80 annunciava un “impulso verso la medietà […] che simbolizza la stanchezza apocalittica di una società che ha dovuto vedere sin troppe rivoluzioni”.

L’autore che ha invece meglio sezionato l’anatomia della stanchezza presente è il filosofo Byung-Chul Han.

La stanchezza secondo Han

Nel suo breve e incisivo libello intitolato “La società della stanchezza”, Han descrive un quadro disarmante dell’epoca odierna, riuscendo a riformulare il significato di molti concetti che nel sentire dell’uomo medio assumono generalmente un’accezione positiva: questi vengono infatti riletti come espressioni patologiche e come manifestazioni malate di un tempo che vive in modo disarmonico il peso della propria stanchezza.

Anche lui come Sloterdijk conviene nell’attribuire una rilevanza al desiderio implicito dello Zeitgeist (ossia la tendenza culturale predominante) degli ultimi decenni a voler chiudere con le situazioni estreme del ‘900: Han nota che da un “sentire immunologico”, in cui l’estraneo, l’alieno, rappresenta la minaccia che proviene da fuori e rispetto alla quale è necessario immunizzarsi, siamo passati ad un “eccesso di positività” che addomestica il nemico nel concetto di “esotico”.

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Le patologie di una società stanca

Questa rappresentazione rimanda al senso di pienezza che culmina nell’opulenza, così come al senso di rifiuto per quell’eccessiva sazietà che pervade ogni aspetto della vita. Non si tratta più, ovviamente, di una sazietà che riguarda solo aspetti materiali, perché essa si palesa oggi in una bulimia di informazioni che prende le mosse attraverso una Rete iperestesa. A partire da questo malessere generalizzato si generano nuove forme di malattia: le malattie del nuovo millennio sono infatti di derivazione stressogena, quali l’ADHD, la sindrome da burn-out e il behavioral disorder. In questa analisi psicosomatica della società Han traccia un parallelismo tra l’emergere di nuove patologie e il loro essere riflesso di un sentire collettivo.

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La positività eccessiva

Il paradigma della stanchezza consente di rileggere sotto un’ottica del tutto differente alcuni concetti generalmente accolti in maniera positiva dalla “coscienza collettiva”.

Nel corso dei millenni l’umano ha lottato per adattare l’ambiente ai propri desideri, e ora che il comfort assoluto è perfettamente raggiungibile, in alcune zone del pianeta si manifestano gli effetti del salutismo imperante, dell’ergonomia diffusa, della rimozione forzata della morte dalla vita. Questa positività si tinge di tinte fosche, appesantisce lo spirito umano e lo relega alla prigionia della stanchezza.

Un altro problema viene visto nel modello prestazionale, perché l’eccesso di positività richiede un accentuarsi del bisogno di prestazione. Efficacia, efficienza, competenze sempre più settorializzate, know how, multitasking e formazione continua sono solo alcuni degli imperativi che imprimono allo stile di vita occidentalizzato un continuo impulso all’azione. Dietro alla positività di questi contenuti si mascherano in realtà meccanismi che inducono ad “una stanchezza del fare e del poter-fare”.

Fenomenologia dello spirito attivo

Soffermiamoci ora su quelle che sono le conseguenze per lo spirito di una cultura umana imperniata su assunti prestazionali.

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Quando la coscienza collettiva è sempre più sollecitata da una tensione all’agire, alla connessione e alla trasmissione perpetua di informazione, si verifica il tramonto della capacità di sostenere il vuoto: diviene sempre meno accettabile differire gli impulsi, o stare in contatto col silenzio e l’inattività. La frammentazione, moltiplicazione e velocizzazione delle informazioni comporta una graduale cessazione del pensiero narrativo, e si crea così un’umanità priva di narrazioni complesse (priva quindi di esempi e di facoltà capaci di entrare in contatto con gli aspetti più profondi dello spirito umano).

La conseguenza globale derivante da questi processi è il decesso della vita contemplativa che, a differenza dell’isterismo diffuso, necessita dell’otium e dell’inattività. La morte della vita contemplativa implica poi – anche – da una parte l’imporsi della noia e dall’altra una continua fuga dall’horror vacui.

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L’individuo si dirige insomma sempre più verso l’egocentrismo della vita attiva, e l’autore nota acutamente che tutto ciò avviene nel paradosso di una “libera costrizione”. In una sua recente intervista in cui anticipa i contenuti di una sua nuova pubblicazione, Han parla di “levigatezza” come caratteristica che rende attraente e appetibile il manifestarsi di una realtà di questo tipo. Come in Huxley, anche in Han la prigionia si trasforma in una vacanza o in una festa perpetua, ma questa libertà è del tutto posticcia e inautentica: “L’iperattività è – paradossalmente – una forma estremamente passiva del fare, che non ammette più alcun agire libero”.

Quale stanchezza salverà il mondo?

Appare doveroso a questo punto chiedersi se sia possibile costruire delle resistenze dall’interno per potersi difendere dal vortice della velocizzazione dissennata. Han fornisce una risposta a questo interrogativo trovandolo proprio nel principio della stanchezza.

Il filosofo distingue tra due tipi di stanchezze: la stanchezza della “prestazione senza prestazione” e la “stanchezza fondamentale” (concetto che Han mutua da un altro autore, Handke): la stanchezza fondamentale è quella che recupera la negatività, il silenzio, il vuoto, il differimento dall’azione, e all’interno di essa si può coltivare una dimensione riflessiva in cui fare germogliare nuove possibilità. La stanchezza fondamentale è – quindi – tutt’altro che inattiva: si muove di un’attività differente, rallentata, silenziosa, introiettiva, generativa, che consente una possibilità di ristoro nel giardino dell’animo umano.

PIE

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Il filosofo Byung-Chul Han descrive un quadro disarmante dell’epoca odierna: l’uomo è malato e vive una quotidianità disarmonica e stanca.
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